Immaginatevi immersi nella campagna inglese più tipicamente verdeggiante, costellata di cottage di ogni dimensione ma tutti ugualmente invidiabili, e da vari quadrupedi al pascolo, sferzata dal vento e bagnata dalla pioggia e dal sole intermittenti.
Sotto i vostri piedi, la strada scorre tranquillamente immersa in questo quadro quasi irreale. Se non fosse per le auto, e per un breve tratto che deve essere attraversato sfidandole apertamente, potreste davvero pensare di essere stati catapultati in un momento qualsiasi tra il 1809 ed il 1817.
Da Alton, la cittadina principale da cui siamo partiti, a Chawton basta poco più di mezz’ora di cammino (massimo 40 minuti, se ve la prendete comoda e vi godete il tragitto). E alla fine, potete scommetterci, la vostra passeggiata, pur sotto qualche goccia di pioggia, sarà ampiamente ripagata.
Andare a far visita alla cara Zia Jane è sempre una festa. Soprattutto quando accade per la prima volta!…
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Archivi autore: Silvia Ogier
L’ombelico del mondo austeniano: Chawton
Ah, Chawton..
Nemmeno la canonica di Steventon, se esistesse ancora, eserciterebbe lo stesso fascino su di me. E sì che a Steventon Jane è nata e cresciuta e lì è vissuta anche tutta la sua numerosa e articolata famiglia…
No, solo Chawton, dove Jane visse gli ultimi 8 anni della sua breve ma intensa vita, è per me l’ombelico del mondo austeniano perché è il luogo in cui l’energia creativa di Jane, dopo anni di elaborazione, crescita, sconfitte e blocchi, trovò la scintilla che la accese.
Tutta la sua opera canonica così come la conosciamo prende forma lì, sia i romanzi già scritti – che vengono revisionati e preparati per la pubblicazione – ma anche quelli che forse già si agitavano più o meno nebulosi nella sua mente…
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…ancora a proposito di Charlotte, il matrimonio, le donne con G.Parisi
(nell’immagine di testa: Monastero degli Olivetani, Univ. di Lecce)
Il nostro ultimo tè dedicato a Charlotte Lucas (Charlotte Lucas, ovvero: mi piego ma non mi spezzo) ha destato molte riflessioni in coloro che hanno letto il post, e che ringrazio vivamente perché, a loro volta, hanno suscitato altrettante elucubrazioni nella mia fervida mente di Janeite… nonché in quella di Gabriella, alias LizzyGee, una delle mie care compagne di incursioni nel mondo dei derivati austeniani, (insieme a Miss Claire, alias LizzyP, nel salotto Old Friends & New Fancies dedicato proprio a questo particolare e prolifico genere letterario).
Per effetto di una di quelle meravigliose, insondabili coincidenze significative che mi piacciono tanto, Gabriella si è trovata a leggere proprio nei giorni del post un libro (La Monaca, di Simonetta Agnello Hornby) in qualche modo legato sia a Jane Austen sia all’argomento di quel post, cioè condizione femminile e matrimonio.
Perciò oggi, in questo tè delle cinque, le cedo ben volentieri il compito di fare due chiacchiere austeniane, ringraziandola vivamente di avermi regalato queste sue riflessioni.
In che modo, e con quali effetti, Jane Austen si intreccia con il destino di una monaca in un convento del Sud d’Italia di metà Ottocento?…
Charlotte Lucas, ovvero: mi piego ma non mi spezzo
Confrontandomi nel corso degli anni con le opinioni di altri lettori e di esimi studiosi, ho notato che spesso le parole e le azioni della più cara amica di Elizabeth Bennet vengono stigmatizzate, le sue scelte contestate, lei stessa severamente giudicata come una bieca calcolatrice o una debole di carattere.
Sì, certo, questo atteggiamento può essere facilmente considerato inevitabile dal momento che l’intero romanzo è narrato dal punto di vista di Elizabeth, e Jane Austen è abilissima nel coinvolgerci nello sgomento e nella delusione di Lizzy nei confronti della sua amica del cuore, cioè una delle rarissime persone delle quali ella abbia una buona opinione e che rendano la sua vita più sopportabile.
Eppure, per Charlotte Lucas – la zitella ventisettenne, a cui la sorte non ha dato altro se non una mente brillante ed un buon carattere (“giovane donna assennata e intelligente”), lasciandola del tutto priva di bellezza e denaro in un mondo in cui una donna valeva esclusivamente proprio in virtù di ciò – ho sempre avuto un occhio di riguardo fin dal nostro primo incontro. Dirò di più: non riesco a non commuovermi ogni volta che la ritrovo.
Marriageableness, ovvero: il grande equivoco austeniano
Il luogo comune che trovo più fastidioso a proposito di Jane Austen è quello che considera i suoi romanzi e le sue eroine come una gigantesca macchina da guerra in crinoline mossa verso l’unico obiettivo finale: il matrimonio.
Da questo, credo, conseguono tutti gli altri – provando a metterli insieme: sono romanzi da brave ragazze, con figure femminili antifemministe, il cui unico pensiero è la ricerca del principe azzurro, bello e ricco; ergo, romanzo rosa; cioè roba da donne, anzi, donnicciole in preda ai fumi del romanticismo più melenso e sfrenato, in breve una noia insostenibile se non addirittura dannosa.
Ma, di certo, quello più forte di tutti è appunto il matrimonio come unica carriera femminile possibile – come se le nozze finali dei romanzi austeniani fossero l’unico elemento narrativo importante e non una logica conseguenza di un lungo, avvincente ragionamento in forma di romanzo.
Leggendo uno dei libri che spesso amo citare nelle mie chiacchierate – Jane Austen, di Tony Tanner, raccolta di saggi che questo studioso e critico ha scritto sui romanzi canonici austeniani – ho trovato la citazione di un brano che si può considerare l’emblema di questo colossale equivoco.