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Zia Fay parla di Zia Jane: Letters to Alice on first reading Jane Austen

fay_weldon_letters_to_alice_011Ho scoperto questo libriccino – minuscolo ma densissimo – del tutto per caso, passeggiando nella blogosfera alla ricerca di tracce sull’adattamento televisivo BBC di Pride & Prejudice che Fay Weldon sceneggiò nel 1979 (andato in onda nel gennaio del 1980).
(per tutti i dettagli in merito, si veda il post: (Ri)Scoprire Pride & Prejudice BBC 1980
Minuscolo è un aggettivo forse adatto alle sue dimensioni (e anche al fatto che è tra i lavori meno conosciuti di Mrs Weldon) ma non certo alla sua qualità:  la sua portata in termini di sollecitazione delle nostre celluline grigie, infatti, è inversamente proporzionale alle sue dimensioni ridotte. E non si limita all’argomento principale, cioè Jane Austen.
Intendiamoci: non c’è nessuna grandiosa rivelazione ma è un lussuosissimo, frizzante, talvolta commovente  e di certo sempre originale spunto per la riflessione su ciò che, in quanto Janeite, amiamo di più: Jane Austen e le letteratura.
E che per questo io consiglierei vivamente anche a coloro che di Jane Austen non hanno mai sentito (anche volutamente…) parlare.

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Marriageableness, ovvero: il grande equivoco austeniano

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Il luogo comune che trovo più fastidioso a proposito di Jane Austen è quello che considera i suoi romanzi e le sue eroine come una gigantesca macchina da guerra in crinoline mossa verso l’unico obiettivo finale: il matrimonio.
Da questo, credo, conseguono tutti gli altri – provando a metterli insieme: sono romanzi da brave ragazze, con figure femminili antifemministe, il cui unico pensiero è la ricerca del principe azzurro, bello e ricco; ergo, romanzo rosa; cioè roba da donne, anzi, donnicciole in preda ai fumi del romanticismo più melenso e sfrenato, in breve una noia insostenibile se non addirittura dannosa.
Ma, di certo, quello più forte di tutti è appunto il matrimonio come unica carriera femminile possibile – come se le nozze finali dei romanzi austeniani fossero l’unico elemento narrativo importante e non una logica conseguenza di un lungo, avvincente ragionamento in forma di romanzo.
Leggendo uno dei libri che spesso amo citare nelle mie chiacchierate – Jane Austen,  di Tony Tanner, raccolta di saggi che questo studioso e critico ha scritto sui romanzi canonici austeniani – ho trovato la citazione di un brano che si può considerare l’emblema di questo colossale equivoco.

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La terza dichiarazione per Elizabeth Bennet

La prima dichiarazione, secondo www.pemberleypond.com

Siamo talmente abituati a sentire etichettare Jane Austen come “roba da donne” – o da educande, che pensano solo al matrimonio, per di più vantaggioso, perfette eroine da romanzo rosa, solo per ricordare alcuni dei più forti ed infondati luoghi comuni – che non riusciamo a reprimere un moto di piacevole sopresa, che si tramuta subito in entusiasmo, quando un uomo mostra interesse e gradimento per la nostra beniamina.
Di più, siamo inevitabilmente portate – noi, donne austeniane – a guardare con un occhio di grande riguardo e profonda ammirazione un tale uomo.
Spingendomi più in là, potrei persino dire che, così, trasformiamo in affermazione la fatidica domanda di Lizzie, these are the words of a gentleman, queste sono parole da gentiluomo. Salvo beneficio d’inventario, s’intende.
Al novero degli Austeniani di genere maschile appartiene il Prof. George Saintsbury (1845-1933) studioso di letteratura inglese, docente universitario, che non solo ha dedicato il proprio lavoro all’opera di Jane Austen, lasciando analisi acute e di riferimento per chiunque tratti la materia, ma è anche il padre del termine che ci accomuna tutti in questa ammirazione (devozione? fanatismo? scegliete ciò che vi si addice di più, anche tutti e tre): Janites.
Abbiamo già avuto modo di scoprire questa sua fondamentale paternità, condivisa con un altro grande della cultura inglese, Rudyard Kipling.
(Per saperne di più, invito a leggere i post della serie Come nasce la parola Janites)

Oggi, torno a curiosare nello scritto che ha visto la nascita del termine e del concetto di Janeite per riprendere un tema che sembra germogliare spontaneamente, come un binomio inscindibile con Jane Austen e/o con Pride and Prejudice: l’amore per Elizabeth Bennet.
Servitevi abbondantemente di tè e dolcetti, dunque, stiamo per assistere ad una lunga, originale, entusiastica “terza dichiarazione”.

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Così nacque “my own darling Child”, Pride and Prejudice

Frontespizio della prima edizione di Pride and Prejudice

Frontespizio della prima edizione di Pride and Prejudice

E – I want to tell you that I have got my own darling Child from London.
IT – Voglio dirti che ho avuto il mio adorato Bambino da Londra.

Jane scrive queste parole eloquenti a sua sorella Cassandra il 29 gennaio 1813.
Il giorno precedente, il 28 gennaio, era stato un altro sorprendente grande giorno, per Jane, che aveva visto un’altra delle sue creature venire la luce, dopo l’insperata pubblicazione e l’entusiasmante successo avuto poco più di un anno prima, nell’ottobre del 1811, da Sense & Sensibility (Ragione e Sentimento).
L’adorato Bambino è ovviamente Pride and Prejudice (Orgoglio e Pregiudizio) e questa definizione ci racconta molto dell’amore speciale che Jane ebbe sempre per questa sua opera – non a caso, è quella più citata nelle  161 lettere sopravvissute alla damnatio memoriae della fedele Cassandra. Ma questo suo sottolineare l’età un po’ più adulta di Pride and Prejudice  rispetto al precedente Sense and Sensibility sembra quasi esprimere una sua consapevolezza di quanto la propria abilità di narratrice fosse maturata. Quasi come se ella sapesse bene che il lavoro di revisione sul primo era stata una splendida palestra per il secondo…

Ebbene: come le first impressions sono cresciute fino a diventare il suo romanzo forse più amato nel tempo e nello spazio da folle oceaniche di appassionati lettori compulsivi?
Come la nostra Jane ha vissuto i 14 mesi che la portarono dall’uscita del primo romanzo pubblicato, Sense & Sensibility  a quella del secondo, Pride and Prejudice?
La strada, in realtà, era iniziata molto tempo prima. E non era andata benissimo…

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Le cause della morte di Jane Austen: pochi indizi, solo ipotesi

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La placca di ottone dorato, posta alla fine dell’800, accanto alla tomba di Jane Austen a Winchester

E’ sconcertante come sia la vita sia la morte di Jane Austen sfuggano a qualunque indagine. Se della sua vita sappiamo quel poco che ci è stato concesso dalla drastica decisione che sua sorella Cassandra ha scrupolosamente eseguito (distruggendo buona parte della loro corrispondenza), della sua morte sappiamo ancora meno.
Le cause della morte di Jane Austen, infatti, sono tutt’ora oscure.
Di quell’anno e mezzo circa che decorre tra i primi dolorosi sintomi della malattia (più o meno all’inizio del 1816) ed il momento in cui Jane muore (18 luglio 1817), sappiamo solo quanto ci è rimasto nelle sue lettere e nel Memoir scritto dalla nipote Caroline. Nulla di più. Non esiste un referto medico né alcuna altra testimonianza medico-scientifica di quanto le è accaduto e delle cure prestate. Le evidenze a disposizione sono, dunque, davvero poche e labili per poter formulare qualcosa di più di una manciata di ipotesi.

Ma ultimamente, con tutto il fragore che una notizia del genere può comportare, è stata avanzata una nuova clamorosa ipotesi: l’avvelenamento da arsenico, per il quale non si escluderebbe nemmeno un… omicidio consumato per una faida familiare. Quanto è attendibile e/o verosimile tutto ciò?

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