Potrei dirvi che le ragioni per cui mi ci sono appassionata a questo romanzo sono dovute a molti fattori personali.
Sì, conosco l’autrice, e sapete che considero come una missione di affetto e rispetto l’atto di acquistare, leggere e promuovere l’opera di chi conosco.
Sì, è un derivato austeniano, e questo di certo ha contribuito a renderlo ancora più interessante.
Sì, è una riscrittura di di Pride and Prejudice (Orgoglio e Pregiudizio) dal punto di vista di Darcy, e al fascino di questo splendido eroe austeniano non si può resistere, mai, nemmeno quando è infilato a forza nei ruoli e nelle situazioni più improbabili (ma non è questo il caso).
Ma ci sono altre ragioni (sapete che le ho), altrettanto determinanti ma niente affatto personali.
Una su tutte: questo libro è scritto bene, nel senso più vero dell’espressione, perché non c’è frase che non sia ben costruita e calibrata, anche dal punto di vista lessicale, perché la struttura non si limita a seguire pedissequamente l’originale, perché le fantasie da Janeite di lunga data e fede comprovata non sono buttate sulla pagina e abbandonate a loro stesse, come troppo spesso capita leggendo questo genere di opere.
Potreste obiettare che, in fondo, basta seguire il tracciato solido del capolavoro austeniano per riscriverlo con un punto di vista diverso.
Credete a una lettrice di derivati: questa condizione, di per sé ideale, non è affatto sufficiente. Ne ho letti troppi per non sapere che avere cotanto originale a far da tappeto soffice sul quale lasciare scivolare serenamente la penna non è affatto una garanzia di bontà della composizione (ne ho lette, di ciofeche!).
ane Austen, con qualche incursione da altri autori – ma non vi rivelerò nulla di più perché è un piacere scoprirlo durante la lettura.
E dunque, servitevi abbondantemente di tè e dolcetti (la chiacchierata è un po’ lunga, come si conviene) e accomodatevi: apriamo questo libro e cominciamo a leggerlo, in compagnia di chi lo ha scritto – che, a dispetto dello pseudonimo molto neutro e very British, è donna ed è italianissima.
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Le ombre dell’inquietudine (più che del delitto) nel paradiso di Darcy e Lizzie.Death comes to Pemberley (Morte a Pemberley) di P.D.James
(post aggiornato il 29/11/2014)
Questo romanzo è da qualche tempo tornato alla ribalta perché la BBC ne ha realizzato un adattamento per la tv, in tre puntate da un’ora ciascuna, trasmesso nel mese di dicembre 2013.
Il romanzo è un prosieguo di Orgoglio e Pregiudizio ed è stato pubblicato nel Regno Unito nel 2011, in tempo per la celebrazione del duecentesimo compleanno dell’amato capolavoro di Jane Austen, avvenuta il 28 gennaio del 2013. (L’edizione italiana di Mondadori, infatti, è uscita puntualmente pochi giorni prima di tale data, il 22 gennaio)
I giudizi sul libro sono stati fin da subito molto contrastanti, talvolta così tanto da scoraggiare sia gli affezionati lettori di P.D. James sia gli austeniani più convinti. L’ho letto in originale, prima dell’uscita italiana, nel salotto delle Lizzies e mi sono resa conto di come molti di questi giudizi, indipendentemente dal grado di apprezzamento, si basino su un presupposto sbagliato.
Tra gli elogi sperticati e la condanna senza appello, infatti, c’è un giusto mezzo che diventa chiaro se si pensa a come nasce questo romanzo, nelle intenzioni dichiarate dalla sua stessa autrice in molte interviste ma, soprattutto, nelle pagine che ha scritto.
In poche parole, non dobbiamo aspettarci un classico romanzo “à la P.D.James”, in cui l’intreccio giallo è articolato e appassionante. Tutt’altro: la soluzione dell’enigma si compone assai presto nella mente di chi legge – e questo è, senza dubbio, un difetto – ma, come sempre in questi casi, il bello sta nello scoprire attraverso quali vie ci arriveranno i protagonisti. Non solo: ben altri sono gli aspetti che conquistano il lettore e – sono spiacente per i fan di P.D.James che restano all’asciutto – sono tutti decisamente austeniani…
Jane indaga a Pemberley! – in Jane e l’arcano di Penfolds Hall (serie S. Barron, vol.5)
Le mie esperienze di lettura dei romanzi di Stephanie Barron, della serie “Le indagini di Jane Austen”. Quinta puntata: L’arcano di Penfolds Hall (vol.5).
Per il giudizio generale su questo tipo di lettura e le note sull’autrice Stephanie Barron, rimando alla puntata dedicata a La disgrazia di Lady Scargrave, vol.1.
Per le puntate precedenti: Il Mistero del Reverendo, vol.2 – Il Segreto del Medaglione, vol.3 – Lo spirito del Male vol.4
Come spesso accade nei miei tè delle cinque, comincio dalla fine, cioè dal giudizio complessivo su questo romanzo – la quinta indagine della Jane Austen tra realtà e fantasia inventata da Stephanie Barron – per dire che senza dubbi è il migliore dei primi cinque.
Mai come in questa indagine, la miscela di verità e finzione è perfettamente amalgamata in un omaggio di grande amore, ringraziamento e rispetto alla geniale creatrice di capolavori immortali. Qui, uno solo di essi si annuncia fin dalle prime battute come l’ingrediente principale, Pride and Prejudice (Orgoglio e Pregiudizio).
Posso immaginare un guizzo di scetticismo nel vostro sguardo mentre leggete questa frase. E per motivi molto vari.
Potreste obiettare che il mio giudizio sia pesantemente influenzato dal mio amore viscerale per la vicenda di Elizabeth, Darcy & Co. o dalla mia consolidata frequentazione di derivati di ogni genere, che potrebbe tendere ad abbassare, sporcare, indebolire il mio livello di discernimento.
Oppure che per un autore di oggi sia fin troppo facile conquistare il favore dei lettori adagiandosi sul tappeto soffice e sicuro di questo capolavoro.
Oppure, proprio per lo stesso motivo, che sia del tutto impossibile per lo stesso ardito autore creare qualcosa di originale eppure rispettoso.
Per togliervi qualunque dubbio o curiosità, vi invito a seguirmi per un tè nel bucolico Derbyshire, l’Eden di tutti i Janeite, al seguito della stessa Jane Austen, in visita a suo cugino il reverendo Edward Cooper, e nei meandri di un mystery classico e appassionante, da includere di diritto nelle letture immancabili in questo anno del Bicentenario di Pride and Prejudice (Orgogoglio e Pregiudizio).
Il diario della dodicenne Jane da Caro diario ti scrivo…
Care e cari Janeite, che cosa vi viene in mente se dico “diario”?
Che domanda… Henry Tilney, gran maestro d’ironia e di muliebri virtù! – che in un posto mondanissimo come le Lower Rooms di Bath diverte se stesso e la sua giovane e ingenua dama Catherine (che ha appena osato insinuare “Ma, forse, non tengo un diario”) con una breve ma accurata descrizione dell’utilità propedeutica del diario:
Non tenere un diario! Come fa la vostra cugina lontana a sapere il tipo di vita che fate a Bath senza un diario? Come possono essere riferite a dovere le cortesie e i complimenti di tutti i giorni, se non le si annota ogni sera in un diario? Come ricordarsi i vestiti indossati, e lo stato particolare della carnagione, e come descrivere tutte le sfumature dell’acconciatura dei vostri capelli, senza fare costante ricorso a un diario? Mia cara signorina, non sono così all’oscuro delle abitudini delle giovani signore come vorreste credermi; è quest’uso delizioso di tenere un diario che contribuisce a gran parte dello stile fluente nello scrivere per il quale le signore sono così generalmente celebrate. Lo sanno tutti che il talento di scrivere lettere piacevoli è tipicamente femminile. La natura può entrarci qualcosa, ma sono certo che dev’essere assistito concretamente dall’abitudine a tenere un diario.
(L’Abbazia di Northanger, cap. III)
Jane Austen, nascosta dietro al suo Henry, si prende gioco della gabbia sociale in cui l’arte dello scrivere al femminile è stata ingabbiata e, nel farlo, ci regala un quadro perfetto di questo particolare strumento di autoconoscenza e creatività: il diario.
Ma Jane – che scriveva come respirava, cioè in modo del tutto naturale e vitale, raccontando e analizzando se stessa e la realtà che la circondava – aveva un diario? Non lo sappiamo per certo, nessun diario di Jane Austen è arrivato fino a noi e nelle lettere o nelle biografie familiari non ci sono accenni espliciti a questa consuetudine, anche se non fatichiamo a immaginare Jane intenta a scrivere un diario.
Come sempre accade in questi casi, la nostra affettuosa fantasia colma la dolorosa lacuna: basti pensare a due esempi famosi come i romanzi di Syrie James o Stephanie Barron.
Oggi vi invito a scoprire un libro italianissimo, Caro diario ti scrivo che, grazie a Patrizia Rinaldi e Nadia Terranova, immagina alcune pagine dei diari di sei grandi scrittrici, colte nei loro dodici anni, nel momento in cui cominciano a scoprire il mondo anche attraverso quella meravigliosa magia che è la scrittura: Matilde Serao (ovvero L’amore o qualcosa di simile), Beatrix Potter (ovvero La parola può tutto), Anna Maria Ortese (ovvero Dov’è casa mia?), Emily Dickinson (ovvero Vivere con la timidezza), Silvina Ocampo (ovvero Diventare forza fantastica) e – scusate se sono così spudoratamente di parte – dulcis in fundo Jane Austen. Ovvero: L’anticonformismo.
Alle origini di Pride and Prejudice: Cecilia, Memoirs of an heiress, di Frances “Fanny” Burney
Leggere Cecilia, or Memoirs of an heiress (Memorie di un’ereditiera), dopo Evelina significa trovarsi improvvisamente sul lato non illuminato della luna. La luce calda e l’aria frizzante del primo romanzo di Fanny Burney si spengono e la prosa scoppiettante, i personaggi originali, le tracce di ironia spariscono. Del tutto. Un altro pianeta.
Devo chiedere perdono all’autrice, Fanny Burney, donna notevole ed arguta, che in Evelina ha senza dubbio dimostrato il suo grande valore e di suoi tanti talenti, raccogliendone ottimi frutti.
Ma in questo caso, con mio grande dispiacere, devo dire che mi sono ritrovata tra le mani un romanzo troppo lungo, con sorprendenti tirate melodrammatiche degne di un libretto d’opera settecentesco (e una sovrabbondanza quasi snervante di punti esclamativi), e persino con inaspettate tirate moraliste a cui difetta del tutto l’ironia per poterle considerare uno sberleffo.
Perché mai mi sono imbarcata nell’impresa di leggere un tomo simile?…
Non solo perché è uno dei romanzi di una tra gli autori più amati da Jane Austen, persino citato in Northanger Abbey, ma anche perché pare (non è cosa certa) che il nuovo titolo per First Impressions, cioè Pride and Prejudice, sia stato ispirato proprio dalle ultime pagine di Cecilia.
Non potevo esimermi dall’affrontare questa impresa, per quanto evidentemente faticosa, nell’anno del Bicentenario!(link al tè delle cinque dedicato a Evelina in fondo al post)