Durante il Tè con Jane Austen dal vivo dello scorso 15 febbraio alla Libreria delle Donne di Bologna, ho detto una quantità di cose, come nella migliore tradizione dei miei tè delle cinque in questa sala da tè. La maggior parte di esse sono state vere e proprie elucubrazioni su come ho incontrato Jane Austen e che cosa vi ho trovato.
Un taglio così personale mi è servito per provare a raccontare, attraverso la mia esperienza diretta, che cosa renda la geniale scrittrice di duecento anni fa così moderna (tanto moderna da apparire addirittura un passo sempre più avanti) agli occhi di noi, donne e uomini del disincantato, ipertecnologico XXI secolo.
Per queste mie elucubrazioni, però, non mi sono affidata soltanto alle mie gambe ma mi sono appollaiata saldamente sulle spalle dei giganti. Per cominciare bene, da solide basi.
Una di queste solidissime spalle è quella offertami generosamente da un uomo. Un Italiano. Un grande scrittore che in comune con Jane Austen ha la capcità di leggere e decodificare la realtà con acume infallibile e poetico.
È con lui che ho voluto iniziare a raccontare chi è Jane Austen. Per molti ottimi motivi.
Le sue parole sono tra le più belle dichiarazioni mai scritte su Jane Austen.
Sono pertinentissime. In mezza paginetta, c’è tutto ciò che c’è da sapere sulla grande autrice.
E sono scritte da un uomo, un dettaglio rilevantissimo che dimostra, una volta di più, come l’etichetta “roba da donne” appiccicata sempre troppo frettolosamente a JA racchiuda un insieme di ignoranze del tutto privo di senso.
E poi, ulteriore dettaglio determinante, questo uomo è italiano. Le sue parole, concepite nella nostra stessa lingua, risuonano sulla nostra sensibilità con tutta la loro forza naturale originale.
Ecco perché in ogni occasione in cui ci sia la necessità di raccontare chi è Jane Austen non esito a rispondere con le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Servitevi abbondantemente di tè e generi di conforto: l’elucubrazione di oggi sarà opportunamente assai lunga.
La Austen è uno dei pochi romanzieri che ha davvero creato un mondo: […]
L’incipit è già di per sé una verità imprescindibile, che si impone in tutta la sua forza stringente.
Innanzitutto, l’autore inserisce senza indugi JA tra i “romanzieri” usando il maschile plurale per intendere l’intera schiera di chi scrive romanzi, indipendentemente dal genere (maschile o femminile ma, mi piace pensare, anche letterario) a cui appartiene, per ricordarne la sua universalità, che trascende qualsivoglia categorizzazione grossolana (vedi alla voce “roba da donne” di cui sopra).
E sì, JA ha creato un mondo, nel senso più vasto, variegato del termine, quell’Austenland fisico (l’Inghilterra della sua vita e dei suoi romanzi) ma anche letterario (il popoloso, dinamico microcosmo delle persone della sua vita e delle sue opere) e pure metafisico (costituito dalle riflessioni e le emozioni e le tante forme, anche le più impensabili, che tutto ciò può ispirare).
[…] un mondo ristretto, certamente, che non ha la vastità degli universi di Balzac o di Dostoevskij, ma che può, come estensione, gareggiare con il mondo di Marcel Proust.
Un altro luogo comune viene evocato. Quante volte capita di leggere o sentir dire che in JA la Storia – sì proprio quella con la maiuscola – non esiste? Eppure, sottotraccia, sullo sfondo, a ben guardare, qualcosa c’è.
La presenza della milizia nello Hertfordshire di Pride and Prejudice (Orgoglio e Pregiudizio) è solo un pretesto per agitare la già iper energetica Lydia e mettere in moto alcuni fatti determinanti?
E i possedimenti di Sir Bertram ad Antigua sono anch’essi solo un pretesto per allontanare il capo famiglia dal mondo claustrofobico di Mansfield Park e innescare un tentativo del suo dissolvimento?
Non è questo il momento per parlarne (ma prima o poi ci prenderemo anche questo tè). Più sbrigativamente aggiungo che non è della Storia che a JA interessava parlare. Come aggiunge prontamente lo stesso Tomasi di Lampedusa:
[…] Essa è stata una persona che ha voluto parlare soltanto di ciò che conosceva molto bene, dell’alta borghesia inglese della fine del Settecento. Il proletariato non esiste, la nobiltà è vista solo di scorcio.
Ogni volta, leggendo queste parole, riecheggiano nella mia mente quelle del nipote di Jane, James Edward, il suo primo biografo, che fin dal 1870 nel Memoir of Jane Austen (Ricordo di Jane Austen) delinea l’ambito in cui l’illustre Zia aveva scelto di muovere la sua penna, puntando il suo osservatorio: la famiglia, i vicini, tutti coloro con cui Jane aveva a che fare nella vita quotidiana.
Nel Memoir, scrive:
[…] ritengo che l’influenza di queste relazioni giovanili possa essere rintracciata nei suoi scritti, specialmente in due particolari. Il primo, che è interamente esente dalla volgarità, che in alcuni romanzi risulta così offensiva, di soffermarsi sugli attributi esteriori di ricchezza o rango sociale, come se fossero cose alle quali l’autore non è avvezzo; il secondo, che si occupa poco sia delle classi più basse che di quelle più alte. Non scende mai al di sotto delle signorine Steele, di Mrs. Elton o di John Thorpe, persone di cattivo gusto e maleducate come quelle che si possono realmente trovare mescolate alla migliore società.
(Capitolo I)
E ancora:
[…] la fedeltà con la quale [i romanzi] descrivono le opinioni e il comportamento della classe sociale in cui l’autrice visse all’inizio di questo secolo. I suoi romanzi fanno questo con maggiore fedeltà proprio in relazione allo stesso difetto del quale sono talvolta accusati, ovvero, che in essi non c’è nessun tentativo di elevare la normalità della vita, ma solo di rappresentarla così com’è.
(Capitolo X)
Torniamo a Tomasi di Lampedusa:
[…] Ma la sua classe la Austen la ha ritratta in modo superiore e, soprattutto, in modo assolutamente spregiudicato sotto il costante velo delle buone maniere sue di scrittrice.
Dato e non concesso che nelle pagine austeniane non ritroviamo l’impetuosa invasione della Storia, è innegabile che la Società è presentissima sotto ogni aspetto, senza remore o filtri, “in modo assolutamente spregiudicato”, appunto, ma “sotto il costante velo delle buone maniere sue di scrittrice”, con la pungente ironia di un sorriso.
[…] Essa è completamente priva d’illusioni: di ogni azione apparentemente disinteressata essa vi mostra, in una mezza frase, i motivi egoistici.
Jane Austen romantica? Sì, e no. La superficie delle sue travagliate storie d’amore, vista più da vicino, ci rivela presto un intreccio ben più articolato, che mostra sempre tutte le altre facce dell’animo umano, anche quelle meno che graziose…
[…] Non ha rispetto per niente.
Ah, quante risate mi faccio su quest’ultima frase, breve e sacrosanta!
Non vi viene in mente il piglio volitivo e lo sguardo penetrante, quasi irriverente, della Jane che ci appare nell’unico ritratto autentico che abbiamo di lei? Sì, quel ritratto eseguito da sua sorella Cassandra (persona assai informata dei fatti, fonte attendibilissima), appena uno schizzo, eppure così reale – quegli occhi ardenti, quei capelli indomabili, quella postura vagamente altera… Guardatelo.
E ripensate alle parole “in modo spregiudicato”, “non ha rispetto per niente”…
O alle parole che seguono:
[…] Pensate, per esempio, al modo con il quale nel romanzo del primo Ottocento erano dipinte le figure dei “genitori”: una venerabilità, una virtuosità da togliere il respiro. Guardate la Austen: il ridicolo, la vanità, l’infatuazione vi sono ritratti senza ritegno.
Sottotitolo: Jane Austen è una vera sovversiva!
Ma non c’è tempo di crogiolarsi con questa appassionante riflessione (sì sì, prometto che prenderemo anche quest’altro tè) che, ecco, Tomasi di Lampedusa completa il ritratto sottolineando una qualità imprescindibile, che tutte le racchiude:
[…] La Austen è uno di quegli scrittori che richiedono di esser letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un’importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto l’apparente semplicità.
Ogni sillaba, ogni virgola, persino tutto ciò che non c’è nelle pagine vergate dalla geniale Jane è carico di significato, portatore di una funzione precisissima nell’intera struttura romanzesca. È come se il mondo intero fosse sublimato nelle lettere dell’alfabeto austeniano. Un’esaltazione inarrivabile dell’Implicito, del Tutto concentrato in piccoli segni innocui, nei suoi infiniti e minuscoli “pezzetti di avorio”.
Come scrive Jane stessa in una lettera al nipote James Edward, il 17 dicembre del 1816:
Che cosa me ne farei dei tuoi Abbozzi robusti, virili, ardenti, pieni di Varietà e di Fuoco? – Come potrei abbinarli al pezzettino di Avorio (largo due Pollici) sul quale lavoro con un Pennello talmente fine, che produce un effetto minimo dopo tanta fatica?
E dopo averla fatta a pezzi con le mie elucubrazioni a ruota libera, ve la lascio leggere per intera, questa strepitosa, azzeccatissima citazione, un vero e proprio compendio delle caratteristiche di Jane Austen, ritratto fedelissimo ed esaustivo, che rivaleggia in realismo e affetto con lo schizzo abbozzato da Cassandra Austen.
La Austen è uno dei pochi romanzieri che ha davvero creato un mondo: un mondo ristretto, certamente, che non ha la vastità degli universi di Balzac o di Dostoevskij, ma che può, come estensione, gareggiare con il mondo di Marcel Proust. Essa è stata una persona che ha voluto parlare soltanto di ciò che conosceva molto bene, dell’alta borghesia inglese della fine del Settecento. Il proletariato non esiste, la nobiltà è vista solo di scorcio. Ma la sua classe la Austen la ha ritratta in modo superiore e, soprattutto, in modo assolutamente spregiudicato sotto il costante velo delle buone maniere sue di scrittrice.
Essa è completamente priva d’illusioni: di ogni azione apparentemente disinteressata essa vi mostra, in una mezza frase, i motivi egoistici. Non ha rispetto per niente. Pensate, per esempio, al modo con il quale nel romanzo del primo Ottocento erano dipinte le figure dei “genitori”: una venerabilità, una virtuosità da togliere il respiro. Guardate la Austen: il ridicolo, la vanità, l’infatuazione vi sono ritratti senza ritegno.
La Austen è uno di quegli scrittori che richiedono di esser letti lentamente: un attimo di distrazione può far trascurare una frase che ha un’importanza primaria: arte di sfumature, arte ambigua sotto l’apparente semplicità.
– Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese (1954): “Jane Austen”, in Opere, Mondadori, Milano, 1995, pag. 982
Nota:
– tutti i brani citati (a parte quello italianissimo di G. Tomasi di Lampedusa) sono tratti da jausten.it e tradotti da Giuseppe Ierolli, grande estimatore del brano oggetto di questo post, tanto che lo ha inserito come epigrafe nella biografia Jane Austen si racconta che ha pubblicato nel 2013.
Hai ragione tu: è pertinentissimo, con pochi tocchi riesce a coglierne e a esprimerne la straordinarietà che non stanca, anzi che stupisce ogni volta, dietro ad ogni frase può nascondersi una rivelazione, una battuta, un sorriso, una riflessione.
Oggettivamente quello che colpisce di più è proprio l’irriverenza con la quale tratta tutti i suoi personaggi e, per traslato, la società dell’epoca: una sorta di bacchettatrice dei costumi, ma sempre con un tocco lieve, una meraviglia per la mente ! Inoltre è proprio vero che i romanzi richiedono più riletture: è sorprendente e divertente trovare sempre nuove sfumature; ecco quanto tiene viva l’attenzione nel tempo.