Infinities of Love. Un saluto è per sempre.

miss_austen_regrets_letter_03Infinities of Love…
Oggi mi concedo una riflessione spudoratamente dettata da quell’affetto letterario fissato per sempre da George Saintsbury, inventore della parola Janeite, che nella sua impareggiabile Prefazione alla famosa peacock edition di Pride and Prejudice (Orgoglio e Pregiudizio) del 1894 parla proprio di personal affection quando indica il legame (ancora oggi inspiegabile ed inspiegato) che unisce i lettori di Jane Austen alla loro beniamina.
La riflessione viene dalla commemorazione della morte di Jane Austen nonché da alcune note che Mara Barbuni ha scritto in recente articolo per jasit.it.


Nelle lettere sopravvissute alla negligenza di parenti e amici nonché al famoso rogo selettivo di Cassandra, ce n’è una in cui Jane Austen saluta con una formula che non troviamo in nessun’altra lettera. Infinities of Love.

Chi ha visto il film BBC Miss Austen Regrets (Io, Jane Austen)  non potrà non ricordare la toccante scena finale in cui Cassandra (interpretata magistralmente da una grande signora dello schermo, Greta Scacchi), dopo la morte della sorella, e nel giorno delle nozze della nipote Fanny,

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con mesta determinazione affida al fuoco le parole della sorella, una lettera alla volta, sotto gli occhi stupiti e disperati della nipote Fanny (nella quale, inevitabilmente, si identifica ognuno di Noi, Spettatori & Janeite, che vorremmo poter fermare quella sorta di damnatio memoriae epistolare, che ci addolora ancora oggi, dopo 200 anni).

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L’inquadratura si sofferma sul rogo, sui fogli e sulle parole che si posano sul fuoco, lentamente ghermiti ed infine mangiati, divorati dalle fiamme. Per sempre spariti nella cenere, dissolti nel fumo.

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Lo sguardo di Cassandra, di Fanny e il nostro si fissano su un saluto che sembra un addio:

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Infinities of Love – Potremmo dire “infinite affettuosità” ma non rende l’originalità della formula scelta da Jane Austen con quell’inesistente “Infinity” al plurale, geniale licenza poetica di una maga della parola. Non ci viene in aiuto nemmeno la traduzione letterale, Infinità di amore o Infinito amore… In realtà, è quasi intraducibile,  ma (credo) del tutto percepibile ad un livello profondo di consapevolezza linguistica, anche da chi non conosce l’inglese.

Confrontando le due lettere (quella scenica e quella reale) ci si accorge che il testo è diverso: nella finzione cinematografica, si lascia intendere, quindi, che la lettera destinata al rogo sia un’altra, diversa da quella che poi è effettivamente sopravvissuta – e che così, unica tra quelle giunte fino a noi, testimonia l’uso di questa formula di saluto da parte della sua creatrice.

Nella lettera vera, la n. 92 del 14-15 ottobre 1813 (l’anno di pubblicazione di Pride and Prejudice, Orgoglio e Pregiudizio), la formula è a cavallo di due righe, appare alla terzultima riga della lettera e prosegue nell’ultima:

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La lettera ha il solito tono scherzoso e ironico che sottende ogni resoconto sulle piccole cose della vita quotidiana di Jane lontana da Cassandra – un’infinità di micro-racconti su visite, balli, incontri, e su abiti e modi delle persone, e le loro vicende private, sui prezzi del cibo o delle merci, sulla salute di tutti… È la “solita” lettera di Jane Austen: uno scrigno di notizie che sembrano una lunga e scoppiettante conversazione svolta durante una passeggiata o un tè pomeridiano, quando la confidenza si fa vera e propria complicità.

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Per tutti questi motivi, oggi, nel giorno del ricordo di Jane Austen a 199 anni dalla sua morte, ho ripensato a lungo a questa lettera, alla sua formula di commiato e al modo in cui i bravissimi realizzatori del film Miss Austen Regrets (Io, Jane Ausen) hanno scelto di farla diventare un saluto finale, definitivo, indimenticabile, eppure pieno di serena speranza, proiettato al futuro, dove l’Infinito – l’immensità così come l’eternità – smette di essere una massa unica e informe e diventa composto di un’infinità di atomi infiniti, con un nome preciso

Infinities of Love.

Yours very affectionately

Jane Austen


☞  La magia delle cose in MIss Austen Regrets di Mara Barbuni (su jasit.it)
☞  Lettera 92 del 14-15 ottobre 1813 su jausten.it
Ringrazio Giuseppe Ierolli per avermi fornito l’immagine del manoscritto della lettera.
Le altre immagini sono tratte dal film Miss Austen Regrets (Io, Jane Ausen), BBC, 2008. Che raccomando a tutti di vedere.

Lady Susan finalmente sullo schermo con Love & Friendship di Whit Stillman

 

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Per definire il personaggio di Lady Susan, protagonista dell’omonimo romanzo epistolare scritto da una giovane Jane Austen nel 1794-95 (e revisionato nel 1805), talvolta viene usata l’espressione dark lady, evidenziandone l’eccezionale statura di feroce arrivista, pronta a calpestare qualunque sentimento e qualunque persona (persino la propria figlia) pur di perseguire i propri obiettivi. Del resto, essere l’unica protagonista “cattiva” del microcosmo austeniano, nonché dell’unico romanzo epistolare, la rende già unica per natura.
Tuttavia, il suo spietato egoismo, per quanto ancora lontano dai raffinati e complessi ritratti delle altre eroine, è reso da Jane Austen così brillante e divertente da suscitare lo stesso entusiasmo.
Ricordo più di una conversazione con una vecchia amica di questa sala da tè, Valeria, in cui ci si stupiva, più che lamentarci, della mancanza di un adattamento cinematografico di questa opera. Una tale figura, un tale intreccio, non potevano non essere interessanti per un cineasta.

Finalmente, all’inizio del 2014 il regista americano Whit Stillman ha annunciato di voler dare forma alla propria ammirazione per questo romanzo epistolare e, nel corso del 2015, ha girato e prodotto il film Love & Friendship, uscito lo scorso 13 maggio negli Stati Uniti e il 27 maggio nel Regno Unito.
Perché Stillman ha cambiato il titolo scegliendo quello di un’opera giovanile dell’autrice?
Soprattutto, è riuscito a cogliere le tante, sottili sfumature di ironia che caratterizzano questo romanzo epistolare?
E qual è il suo rapporto con Jane Austen?
Lo scopriamo insieme a Petra Zari e Mara Barbuni di JASIT. Ma prima: la questione del cambio di titolo.
[In fondo al post, anche alcuni link utili per (ri)leggere il romanzo in italiano o in originale.]

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Intorno a Emma – La Zitella Illetterata e il Bibliotecario Petulante

La pubblicazione di Emma, avvenuta il 23 dicembre 1815, portò con sé molti avvenimenti importanti che animarono la vita quotidiana della sua creatrice.
Innanzitutto, grazie ai buoni auspici di Henry, il fratello-agente di Jane Austen, la nascita della nuova creatura segnò il passaggio dal piccolo editore Egerton (specializzato, peraltro, in editoria militare) al famoso editore londinese Murray (editore di Byron e Walter Scott, nonché di una prestigiosa rivista letteraria, la Quarterly Review).
Inoltre, nei mesi precedenti all’uscita del libro, proprio mentre si trovava a Londra presso il fratello per curare la pubblicazione e revisionare le bozze, Jane ebbe l’occasione di conoscere il medico del Principe Reggente, che si rivelò essere un suo grande ammiratore, tanto da tenere una copia dei primi tre romanzi in ognuna delle proprie residenze. Il Principe, servendosi di un messo consono ad una scrittrice, cioè il suo bibliotecario, il Reverendo (attenzione a questo indizio…) James Stanier Clarke, le mandò un invito a recarsi a Carlton House, la sua residenza londinese.

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La scalinata principale di Carlton House, da Pyne’s Royal Residences (1819) di William Henry Pyne (fonte: austenonly.com via wikimedia)

Come ho già raccontato in un tè delle cinque di qualche mese fa (vedi link in fondo alla pagina), il giorno della convocazione (13 novembre 1815), il Reggente non fu così magnanimo da onorare la pur ammiratissima scrittrice con la propria presenza. Se, da un lato, le rese un involontario favore (il disprezzo di Jane Austen per il Reggente è proverbiale e provato anche da alcuni commenti espliciti nelle lettere), dall’altro la portò a conoscere meglio colui che fece gli onori di casa, il Rev. Clarke, un uomo che pare la personificazione stessa di uno dei personaggi più meschini e comici del suo microcosmo letterario.

La prima conseguenza dell’incontro fu, come già raccontato (vedi link in fondo alla pagina), l’invito a dedicare il nuovo romanzo a Sua Altezza reale, il Principe Reggente – un invito che Jane Austen fu persuasa (assai faticosamente) dall’editore e dalla famiglia ad inserire in Emma.

La seconda fu un carteggio, brevissimo ma serrato, con il suddetto Reverendo-Bibliotecario della Real Casa il quale cercò di sfruttare per sé il contatto con l’illustre autrice, utilizzando tutte le armi della sua dialettica per convincerla a scrivere un libro secondo i propri (egocentrici) desideri di romanziere mancato che si ricicla eroe romanzesco.
Il carteggio, incluso nell’odierna raccolta completa delle lettere, costituisce una lettura esilarante per il piglio ineffabile con cui Jane Austen rintuzzò i vanagloriosi tentativi letterari del suo corrispondente. Ma è anche estremamente illuminante perché racconta molto della personalità dei due corrispondenti e, soprattutto, contiene alcune delle più folgoranti descrizioni che l’autrice di Emma abbia mai concepito su se stessa e il proprio mestiere di scrivere.
Ed è passeggiando tra le righe di queste preziosissime lettere che vi invito a prendere il tè di oggi.

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Le passeggiate primaverili di Jane Austen a Bath

Walking dress, La Belle Assemblée, 1813

Walking dress, La Belle Assemblée, 1813

Ai tempi di Jane Austen, in un’epoca in cui i mezzi di trasporto erano cavalli e carrozze trainate da cavalli (mezzi costosi ed impegnativi, non alla portata di tutti), l’unico veicolo su cui poter contare sempre e gratis erano necessariamente le proprie gambe. Ma anche questo aveva dei limiti sociali ben definiti per le donne, che i codici comportamentali e morali volevano sempre chiuse anche fisicamente nell’ambito domestico e familiare: se è vero che l’unica l’attività fisica concessa alle donne era limitata e rigidamente regolamentata, come la danza, le cavalcate (rigorosamente all’amazzone e senza velleità atletiche) e le passeggiate, è altrettanto vero che in quest’ultimo caso restava un piccolo margine di manovra. Benché uscire da sole fosse fuori discussione (con poche, particolari, rare eccezioni), camminare sui propri piedi restava un’attività indipendente dalla volontà altrui o dal possederne i mezzi materiali, non richiedeva alcuna abilità particolare, metteva in moto, portava altrove, negava la staticità, faceva conoscere il mondo fuori dal regno domestico imposto.
Camminare come metafora di un percorso di libertà ed indipendenza femminile è un aspetto importante, analizzato dalla critica letteraria – come ricordava Liliana Rampello a margine dell’ultimo tè delle cinque, con riferimento al suo saggio Sei romanzi perfetti. Su Jane Austen – e non stupisce che camminare sia un tratto comportamentale condiviso dalle eroine letterarie di autrici ed autori del XIX secolo, un secolo proiettato in avanti, segnato dai grandi movimenti di popoli, classi e persone.

Anche le eroine di Jane Austen, apparse sulla scena letteraria tra il 1811 ed il 1817, camminano molto – persino la fragile Fanny Price, che tende a stancarsi, sì, ma si ritrova sempre a passeggiare in momenti cruciali della sua storia.
Come sempre in Jane Austen, nulla accade mai per caso, tanto meno le passeggiate delle sue protagoniste. Muovendosi autonomamente sui propri piedi lungo le pagine dei romanzi, compiono anch’esse la metafora del loro percorso di affermazione di sé.
Essere eccellenti camminatrici (vere esploratrici di sé e del mondo), è un tratto ereditario: nelle lettere giunte fino a noi, Jane Austen, loro madre letteraria, racconta sempre alla sorella Cassandra le passeggiate compiute in sua assenza, da sola o con altre persone, con uno scopo preciso o per semplice piacere di stare all’aria aperta, in qualunque stagione, in qualunque luogo. Instancabile camminatrice, Jane sembra misurare il mondo e se stessa con la stessa grazia e determinazione che regala alle sue creature.

Oggi, sono proprio alcune di queste passeggiate che vorrei ripercorrere, andando con Jane Austen a Bath, in primavera, in due anni cruciali nella sua vita: il 1801, anno del (probabilmente molto sofferto) trasferimento dalla città natale, e il 1805, ultimo anno di residenza nella città termale.

Bath, il Royal Crescent

Bath, il Royal Crescent

Vi invito a rifornirvi abbondantemente di tè ed altri generi da escursione per seguire Jane Austen nelle sue passeggiate a Bath e dintorni, raccontate dalla sua viva voce, quella delle lettere (e scoprirete che vi sembrerà di stare dentro ad uno dei suoi romanzi).


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Il salotto di Mrs. Collins. Ovvero: la stanza tutta per sé di Charlotte Lucas

by Cassandra Austen, pencil and watercolour, circa 1810 virginia_woolf_her_room

Le strade di Jane Austen e Virginia Woolf sono assai più intrecciate di quanto non sembri ad una prima lettura dei testi in cui la seconda riflette sulla prima. Che la grande scrittrice del Novecento abbia ragionato più volte, sempre in modo originale ed illuminante, sulla geniale scrittrice del secolo precedente, è testimoniato da due articoli, Jane Austen fa i suoi esercizi, recensione di Amore e Amicizia pubblicata su The New Statesman, 15 luglio 1922, e Jane Austen, apparso su Il lettore comune (The common reader) nel 1923, e dal fondamentale (mai abbastanza letto, e raccomandato, e lodato) saggio A room of one’s own (Una stanza tutta per sé), dove Jane Austen viene nominata 25 volte e sempre in funzione di perno di un’analisi, pragmatica e rivelatrice, della letteratura e della realtà.
I giudizi di Virginia Woolf sulla “più perfetta” tra le scrittrici sono sparsi qua e là con l’entusiasmo dell’ammiratrice, la lucidità della pensatrice, la dialettica della scrittrice, e spaziano da Lady Susan a Persuasione, passando per i Watson.

Raramente, forse addirittura mai, ci si rende conto che è possibile ripercorrere a ritroso questo percorso ed approdare di nuovo alle opere di Jane Austen, per esplorarle alla ricerca di elementi concreti e precisi (brani, dialoghi, personaggi, ecc.) che hanno ispirato quella che ritengo la creazione più geniale e completa di Virginia Woolf, vera e propria Teoria del Tutto antropologica: Una stanza tutta per sé (A room of one’s own).

Io ho almeno due prove inconfutabili di questa ispirazione diretta. Ed è la prima che vorrei condividere con voi, oggi, in questo tè delle cinque che ci porta nel Kent, la contea del destino…
(Della seconda prova, ho già parlato qualche tempo fa ma avremo modo di riprenderla, molto presto)

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